10 Settembre 2010, ore - 11 Settembre 2010

“Fili di soli” nel silenzio della notte

Un progetto teatrale su testi di Paul Celan 
a cura di Laura Darsié
Regia di Doris Merz

Interpreti: 
Enrico De Dominicis – l’uomo della modernità
Evelin Paetz – l’angelo della poesia

Musiche di Padre Giuseppe Magrino
Disegno luci di Mario Carofiglio
Scenografie e costumi di Walter Granuzzo e Sieglinde Michaeler

Si ringraziano in particolare:
Eric Celan e Bertrand Badiou per l’autorizzazione alle traduzioni di scena;
Christian Bertram per la collaborazione e Rosalba Maletta per la consulenza alle traduzioni

Spettacolo Teatrale “”Fili di soli” nel silenzio della notte” a cura di Laura Darsié

Nelle ombre dell’Umbria… i bagliori di Celan

di Laura Darsié

Il poema Assisi, emblema celaniano di un’invocazione alla consolazione, si eleva come canto notturno nel silenzio spirituale della Notte umbra – “notte delle ombre” per eccellenza – dove il gioco di parole latine umbra-umbraerimanda originariamente alle ombre dell’Umbria, aloni incontornabili di una parola obliata e affiorata flebilmente fra le tenebre della storia. Da qui l’ispirazione di un poema i cui temi ricorrenti sono riconducibili a una sorta di cantico creaturale (la creaturalità – Kreatürlichkeit per Celan  è dimensione preminente della scrittura), dove il mònito all’asinello (Grautier), simbolo ricorrente nell’agiografia di San Francesco, suona come esortazione ad avvicinarsi, al farsi strada a stento nella neve (im Schnee), davanti a una parola vinta al silenzio che si appella disperata al conforto dello splendore (Glanz) francescano. Versi di una purezza inarrivabile, testimonianza di una poesia tutta novecentesca che rinasce ai margini di se stessa, dove emblematico è il contrasto fra l’indicibilità di una parola devastata dalla storia e il tentativo paradossale di isolarne il senso all’ombra di una pietra che parla nel silenzio: «È la pietra, tu dici, lei può parlare» canterà altrove Celan, conferendole quello statuto creaturale di messaggio in bottiglia nella speranza di un approdo alla terra del cuore.

È all’ombra della parola celaniana che lo spettacolo teatrale “Fili di soli” nel silenzio della notte – in omaggio al quarantennale della scomparsa del poeta – intende restituire un lucore silenzioso, messaggio poetico di un bagliore a intermittenza che fa breccia nella notte delle ombre, insinuandosi nella piega di una crisi epocale irrevocabilmente travolta dalle pseudo-certezze di una modernità divenuta sorda alla chiamata dell’Angelo. Si tratta della complessa relazione fra uomo della modernità e Angelo della poesia, dove l’effetto scenico è quello di una continua intermittenza fra silenzio e parola lungo il filo di una tensione costante che mette in scena i bisogni e le paure dell’uomo contemporaneo per svelarne il destino solitario di un’anima fragile e tormentata.Filo di sole, parola tragica e salvifica ad un tempo, in un’epoca di povertà – una povertà tutta francescana dove proprio la parola più nuda si fa stella della sera di Rilkiana memoria. Fra quelle pieghe silenziose fatte di ombra, tenebra e oscurità, affiora una poesia solitaria che – come afferma Paul Celan – «può divenire dialogo – spesso un dialogo disperato». A fare da sfondo è la “notte sacra”, luogo di intimistica spiritualità che si dispone umilmente alla luce della parola. In questa notte, “mezzanotte del mondo”, la parola è Blindenwort,“fiore di cieco”, rosa notturna che si svela nella sua lontananza e fragilità. Fragilità tutta creaturale che consente di affiancare i testi poetici di Paul Celan e alcune poesie di Giuseppe Ungaretti – presenti nella messa in scena e inerenti alla poetica celaniana – alle creature di San Francesco. Un legame, questo, ­reso possibile dal viaggio che Celan compie nel novembre del 1953 ad Assisi, insieme alla moglie Gisèle, dopo la morte del figlio François, il cui nome svela già un nesso profondo con la memoria del Santo. Ad attestare ciò sono anche le letture di Celan di alcune agiografie di Francesco narrate da G.K. Chesterton e da Tommaso da Celano – dal quale deriva per ammissione diretta lo pseudonimo “Celan”. Ma c’è di più: fra i numerosi riferimenti alle vicende francescane, di cui il poema Assisi è evidente testimonianza, il poeta viene affascinato dalla figura di un ulteriore biografo, seguace di Francesco fino alla fine dei suoi giorni, il cui nome è Angelo. Sarà la dicitura della forma italiana a suggerire a Celan un’assonanza destinale con il proprio nome originario rumeno “Antschel”– successivamente anagrammato in “Celan” – legandolo poeticamente alla memoria del santo.

Una vicinanza quella fra Celan e Francesco, che si vela di un mistero luminoso di amore e pietas, svelato dal silenzio sacro delle ombre dell’Umbria. In questo luogo utopico, la luce della Parola poetica testimonia il segreto di un incontro, laddove, al confine con l’indicibile, si custodisce come ineluttabile l’esperienza del dolore, cifra tragica della finitezza umana: nello spezzamento è lo strappo alla sacralità del cielo cantata sulla terra all’ombra di un’amorosa lontananza. «Per la morte! C’è vita! Dice vero chi dice ombra» dove ombrapietra, terra, neve, morte e splendore appartengono a una sorta di lessico elementare che si eleva oltre un “deserto grigio-nero” (grauschwarzen Ödnis) per librarsi in un canto che si innalza al cielo, nella restituzione della Parola alla sua innocenza creaturale, come cantano i mirabili versi: Fili di soli / sul deserto grigio-nero. / Un pensiero/ad altezza d’albero / afferra il tono di luce: / ci sono / ancora canti da cantare, oltre / gli uomini.